FOCUS/1 La Trasparenza dell’umano in Cosimo Calò

By Antonio Maria Baggio

Cosimo Calò

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Introduzione al testo di Cosimo Calò

Cosimo Calò ha realizzato diverse stesure manoscritte sul tema della malattia e di ciò che essa può comunicare. Egli intervenne nel dibattito organizzato dal gruppo culturale “Teologia in dialogo” nell’incontro dedicato a: “Cultura senza etica?” (Cappella dell’Università La Sapienza, Roma 10 Marzo 1989). La trascrizione del suo discorso venne pubblicata con il titolo «Il linguaggio della sofferenza» (nel periodico «Gen’s» n. 5/1991). Possiamo prendere questo discorso come punto di riferimento per ciò che egli considerava importante comunicare sull’argomento.

Tra i manoscritti di Cosimo Calò si trovano varie stesure di questa riflessione, scritte in tempi diversi. Quattro di esse si possono definire “complete”, trattano cioè tutti i temi affrontati nell’intervento all’Università. Due altre, invece, contengono solo alcuni dei temi esposti nel discorso. Le diverse stesure sono molto simili, usano perlopiù le stesse parole, ma esistono anche varianti interessanti. Teniamo conto che al suo intervento era stato assegnato un tempo delimitato, sia per la buona riuscita di un incontro che prevedeva il dibattito col pubblico, sia perché il dott. Calò pensava e pesava ogni parola che diceva, come se si immergesse, rivivendola, nella realtà che la parola custodiva. E questo lo portava, sovente, ad andare oltre i tempi assegnati. In un appunto, rivolto a se stesso, scritto mentre si preparava a svolgere una delle sue riflessioni, aveva scritto, tra l’altro: “Non emozionarmi, stare nei tempi”. Per questo si può ritenere che certi tagli ad alcuni brani dei suoi scritti fossero dovuti alla necessità di non dilungarsi e non alla minore importanza dei testi messi da parte.

Allo scopo di comunicare tutti i punti rilevanti del pensiero del dott. Calò sul tema in oggetto, ho aggiunto, all’interno del testo pubblicato in Gen’s le varianti più brevi, che arricchiscono il discorso senza modificarne la struttura. Altre varianti significative, ma parzialmente ripetitive, il cui inserimento avrebbe costituito un appesantimento del testo, sono raccolte alla fine.

Ho pensato di dare al presente scritto, per distinguerlo da quello già pubblicato,  il titolo “La Trasparenza dell’umano”, perché questa, nel pensiero del dott. Calò, è l’esito possibile del dolore e, in generale, come si desume da altri suoi testi non pubblicati, l’esito della vita vera e piena [1].

A queste pagine di Cosimo Calò faranno seguito due commenti, affidati al prof. Valter Giantin e alla Dr. Sara Felli.

Antonio Maria Baggio, 1 settembre 2025.

[1] Per conoscere la figura di Cosimo Calò: Cola, S. (1994). Cosimo Calò. La misura dell’amore: senza misura. Roma: Città Nuova; Baggio, A. M. (1992). «Grazie Cosimo». Città nuova. 3/1992, pp. 27-31:

www.antoniomariabaggio.it/wp-content/uploads/2017/09/Grazie_Cosimo_CN_3_1992.pdf

La Trasparenza dell’umano

Cosimo Calò

I mass media ci forniscono, ormai quotidianamente, informazioni sui progressi della medicina e della biologia. Non si può non constatare quanto la tecnologia abbia contribuito alla soluzione di tanti problemi diagnostici e terapeutici.

Contemporaneamente però, come è facile constatare, all’interno della stessa medicina nascono problematiche a volte a dir poco inquietanti. Basta pensare all’uso indiscriminato di tranquillanti da parte di milioni di persone… Non intendo soffermarmi qui, su questo tema, peraltro molto interessante e attuale. Né tantomeno sui progressi della scienza o sulla problematica della medicina di oggi. Cercherò semplicemente di raccontare col linguaggio dell’esperienza quello che ho provato in questi trent’anni a contatto coi malati.

Le mie riflessioni si riferiscono quindi a persone che hanno un volto, a circostanze ben definite, ad avvenimenti umani, a rapporti intensamente vissuti. Il mio mondo è stato la malattia; la mia gente e il mio interesse sono stati gli ammalati. Con loro sovente ho stabilito un dialogo. Spesso il dialogo con l’ammalato si è realizzato quando era imprevisto e inaspettato. Dialogo non sempre fatto di parole.

Ma che cos’è la malattia? Chi è l’ammalato? Qual è il suo linguaggio?

Per “capire” che l’ammalato non è il numero del letto di una divisione ospedaliera, bensì una persona che ha un nome, ci sono voluti per me alcuni anni di esercizio professionale. Può sembrare una verità ovvia, ma interiorizzarla ha richiesto del tempo.

Successivamente la malattia, come presenza nel mondo, mi fece un’impressione enorme. Fu in seguito ad un viaggio nel ‘64 in una vallata del Camerun di lingua inglese ai confini con la Nigeria. Le ulcerazioni, le piaghe di quella gente, erano il volto esterno percepito con i sensi di un male più profondo percepito con l’anima. In quelle circostanze, ed in altre successive, sempre in Africa, ho preso coscienza di quanto il dolore sia una realtà che fa parte dell’uomo. Lo esprime per me un’immagine che non potrò mai più dimenticare e che mi si è impressa nell’anima: il volto di una madre che mi portò il suo bambino in fin di vita per una cardiopatia reumatica attiva.

Sempre in quegli anni, la morte di una epilettica caduta sul fuoco ed ustionata in un’ampia superficie del corpo, mi introdusse in una nuova dimensione dei rapporti tra gli uomini. Ricordo il profondo legame che questa ragazza creava intorno a sé. Legame con la famiglia, legame con tutti. La sua rassegnazione e la sua morte furono poi seguite da un’atmosfera di autentica religiosità. La ragazza e la sua famiglia erano di religione musulmana. Ci fu un’irruzione di Dio in questa vicenda, Dio che sia costò a noi come un unico Padre. Cadevano così pregiudizi inveterati ed emozioni negative e scoprimmo in modo nuovo la fraternità universale.

Tornato in Italia alla fine del ’67, la mia attenzione fu particolarmente attratta dalle persone afflitte da mali incurabili e da malattie croniche debilitanti.

Nacquero, con gli anni, alcune convinzioni profonde. Una prima riguarda le infinite sfumature del dolore. La sofferenza è sempre attuale: il dolore non è monotono. Ciascuno ha il suo dolore.  Ogni dolore, come ogni uomo, è irripetibile.

Una caratteristica comune di questi malati sono le attese, le piccole attese dei miglioramenti, della guarigione, perché la natura non si distacca da questo; ma queste piccole attese sono come tante piccole pietre che costruiscono la grande attesa per l’appuntamento finale.

Ma la comprensione forse più importante nata in me in questi anni è la seguente: questi pazienti, denudati dalla sofferenza, mi sono apparsi come pietre vive nella costruzione dell’umanità e dei suoi valori. Il loro vestito è la sfinitezza, sono persone che sfioriscono, vanno dentro la sfinitezza e in questo processo la loro corporeità si trasforma in una trasparenza, per cui spesso, quasi sempre, sono portatori di luce, della luce di Dio.

Sempre più mi sono convinto che l’umanità, se fosse privata di tali persone, non avrebbe alcuna idea di Dio.

In alcuni casi poi si riscontra negli ammalati un’assenza totale di energie, un’evoluzione disperante del male, un’oscurità totale che occupa tutto il loro spazio psichico: un perché senza risposta. Eppure spesso ho visto che questi ammalati, con una piccola e misteriosa parte di sé stessi, vanno al di là, sono orientati verso quella luce che non c’è.

In questi casi, quando tutta l’oscurità è stata consumata, un altro viene dall’esterno e li prende: si ha allora un contatto reale non con la luce di Dio (che non è avvertita), ma con Dio stesso. Il silenzio di Dio è allora una risposta della sua presenza. Sembra che Dio si incarni in quelle esistenze ormai disgregate. Spesso le parole dei moribondi sembrano dettate da Lui. Dio entra nel mondo e si fa storia. La sofferenza diventa una porta di ingresso di Dio nel mondo.

Un cenno a parte meriterebbe la situazione degli handicappati gravi, di certi anziani affetti da psicosi arteriosclerotiche avanzate, soprattutto dei malati mentali: persone in cui l’io psichico è ridotto, compromesso e qualche volta assente. Colpite in una delle fondamentali dimensioni della loro dignità – la ragione – spesso “parcheggiate” in luoghi non idonei, non ci sarà mai sufficiente attenzione per queste persone. Loro comunicano con un linguaggio essenziale di verità.  Ci fanno pensare che la verità è terribile, che esige una purificazione interiore che rassomiglia alla morte. Essi non mentono, anche se privati dell’io, anzi proprio per questo. A contatto con la loro assenza psichica e con la loro tristezza, l’anima vibra in un modo particolare come se il loro essere sprigionasse la verità dell’uomo e sull’uomo, come se noi fossimo toccati da questa verità. Anche se ci fanno riflettere sull’infelicità dell’uomo, essi ci attraggono verso uno stato di tenerezza che si può chiamare amore. A contatto con loro ci sentiamo purificati. È stato scritto da Simon Weil che «trattare il prossimo infelice con amore è come battezzarlo». Forse è proprio così.

Dopo queste riflessioni forse è possibile cominciare un discorso etico. Sono qui le vere radici dell’etica e della cultura.

Non vorrei si pensasse che si debba fare una cultura della sofferenza. Ci basta quella che già c’è. È  importante però tener conto che la sofferenza c’è e che essa è parte essenziale dell’identità dell’uomo.

Certamente bisogna alleviare la sofferenza ed il male con tutte le energie di cui si dispone. Perciò bisogna capire e rispettare compiutamente il linguaggio della sofferenza. Essa ci richiama i sentimenti e la vita dell’anima tanto quanto la fame e la sete ci richiamano le necessità del corpo.

E se le istanze sociali giustamente sottolineano i diritti fondamentali dell’uomo (come il lavoro, la casa, l’istruzione,  ecc.), le istanze culturali dovrebbero sottolineare i diritti dell’anima, per rompere i legami con il consumismo anche religioso diventato ormai cultura.

Una nuova cultura? Sì!  se la sofferenza diventa elemento di aggregazione sociale, punto di convergenza e di riflessione universali. Non credo che esista cultura senza l’uomo intero e nell’uomo intero c’è anche l’Assoluto, in cui la sofferenza si estingue.

Forse occorre una civiltà d’anima senza precedenti.

VARIANTI SIGNIFICATIVE (dai manoscritti di Cosimo Calò)

[Sui malati terminali]

Si vive immersi in una problematica senza risposta.

L’oscurità e l’angoscia sembrano diventare fine a se stesse. In certi momenti mancano le energie per desiderare la luce o per mettersi nell’attesa della consolazione. La natura umana subisce violenza ed è disgregata nella sua essenza.

Alcuni passano attraverso questa galleria.

Dio, come abitualmente si pensa o si prega, diventa lontanissimo. Ci si aggrappa alle formule di preghiera abituali e tanto amate. Eppure in queste condizioni, sempre, si ha l’impressione che con una parte misteriosa di se stesso l’ammalato tiene fisso lo sguardo su una Realtà che lo trascende ed esegue azioni conformi.

E Dio sembra incarnarsi in quell’essere ormai prossimo alla fine ma sempre più libero e vivificato dalla speranza. «LA SUA CASA siamo NOI, se conserviamo la libertà e la speranza» (Eb 3, 6).

È stato scritto:

«Quando nell’uomo la natura, recisa da ogni impulso carnale, accecata e privata di ogni luce soprannaturale, esegue azioni conformi a ciò che la luce imporrebbe se presente, ecco allora la somma Purezza. È il punto centrale della Passione. Vi è redenzione, la natura ha ricevuto la sua perfezione. Lo spirito, a cui solo appartiene la perfezione, si è fatto natura perché la natura riceva la perfezione»

Weil, S. (1988). Cahiers, III. Tr. it. Quaderni. III. Milano:  Adelphi, 30.

Dio è presente in terra tramite questa sofferenza estrema ed ogni cosa ha il suo reale rapporto con Lui.

La carne sembra assorbire luce e gli occhi del corpo esprimere la gioia dell’anima. Sono già puri di cuore e Dio lo vedono. L’innocenza ha vinto il male. La morte spesso avviene così come un passaggio verso un Regno di luce e di vita. L’ostacolo è superato. Pace.

La natura umana sembra subire violenza ed è disgregata dal male nella sua essenza. Dio sembra assente. Eppure l’ammalato, con un briciolo di energia, con una piccola parte di se stesso, tiene fisso lo sguardo su quel Dio che non c’è. E succede che la Presenza di Dio diventi straordinaria molto più della sua luce. È una rivelazione misteriosa. Non c’è la luce di Dio, ma Dio in persona che sembra incarnarsi in quell’essere ormai prossimo alla fine. C’è un contatto reale con Dio.

E spesso le parole dei moribondi sembrano dettate da Lui. La fine è un passaggio verso di Lui che è la VITA.

L’ammalato è fatto innocente dal male e vede e fa vedere DIO. Sono realtà trasparenti.

[Su sofferenza e cultura]

La sofferenza (qualunque ne sia la provenienza) sta sempre più diventando come l’anima del mondo.  Punto di convergenza sociale, di aggregazione di valori, punto di riflessione dell’uomo d’oggi…

Forse l’etica è la presenza di Dio sotto ogni realtà umana. La sofferenza ne è una parte essenziale. La sofferenza è una porta d’ingresso di Dio nel mondo e nella storia. La ragione e l’intelligenza… non possono prescindere da questo. Non ci sono parole per dire che cosa è la sofferenza. Non si può teorizzare sul dolore, né si può far cultura della sofferenza, se mai la sofferenza stessa è cultura, ma forse è anche di più, forse l’anima della cultura stessa. Occorre far affiorare l’anima nella cultura di oggi. I sentimenti dell’anima oggi sono un linguaggio sconosciuto o dimenticato. Eppure forse il consumismo nella società di oggi attende solo questo.

Ma occorre un bagno dell’intelligenza nella compassione e questo non può avvenire prescindendo da una partecipazione viva al dolore del genere umano. Chi partecipa vive l’altro. In questo modo di intelligenza si correda dell’attenzione intesa come attesa e ricerca della verità e come reale fraternità in un viaggio comune.

Forse occorre un atteggiamento d’anima che si chiama compassione. Ma quella che il Cristo ha introdotto nella storia dell’uomo. La compassione quando c’è svuota di tutto ciò che è accidentale il rapporto e lascia in piedi solo l’Essere.

Tutti, fin dalla nascita, dovremmo esserne coinvolti.

Dovrebbe diventare un sentimento abituale dell’anima, come la fame e la sete lo sono per il corpo.

Per comprendere il contributo alla crescita dell’uomo che la sofferenza degli ammalati dà,  bisognerebbe essere prossimi per le persone percosse da certe malattie (vedi parabola del buon samaritano, Lc 10, 30-37) ed essere prossimi anche in giorno di sabato (Mt 12, 1-8).

Questa è la strada che la malattia ci indica.